Vitigni autoctoni e Biodiversità

“Mio nonno paterno, nato nel 1900, raccontava di come lui stesso all’età di venti anni ereditò terreni con viti diffuse e maritate agli olmi. Da questo antichissimo sistema di allevamento,  già utilizzato in epoca romana, ricavò filari a spalliera col sistema dell’interramento delle propaggini (a getti posti alla base del tronco). Fu nei primi anni Novanta che, parallelamente al mio lavoro di capocantiere, iniziai a occuparmi di quei terreni di famiglia e a produrre piccole quantità di vino”.

Le varietà di uve presenti all’epoca erano l’Ulivello a bacca nera, usata dagli antichi Romani per la produzione del vino Cecubo, e la Reale a bacca bianca.

Fino ad allora erano sempre state vinificate per uso familiare e le tecniche di vinificazione utilizzate risultavano essere piuttosto primitive. Il vino che ne derivava, pur essendo gradevole, era di gradazione medio-bassa.

Riccardo di Corato nel testo 2214 vini d’Italia, ed. 1978, definisce il vino derivato da uve di Ulivello nero un vino leggero “da non invecchiare”.

Viti vinicola
Le orme

Tradizione e innovazione, ricerca e recupero, passione e cura sono gli ingredienti di un progetto che affonda le radici nella curiosità e nell’esperienza di Mario Moretti, appassionato viticoltore, e nel desiderio delle figlie, Valentina e Federica, di raccoglierne l’eredità. La casa vitivinicola Le Orme nasce a Monticelli d’Esperia, un paesino del basso Lazio in provincia di Frosinone.

Le nostre vigne crescono su colline di terra rossa ai piedi dei monti Aurunci e ospitano un sorprendente numero di vitigni autoctoni, fino a qualche anno fa completamente sconosciuti. Con l’Ulivello Nero, vitigno più diffuso nella zona, produciamo il Raspato Ciociaro, vino Cecubo per gli antichi Romani.

Nel 1994 Mario dà inizio a un percorso di ricerca che prosegue ancora oggi.

Si confronta con i vecchi contadini di Monticelli e come un segugio scova nei loro vigneti i vitigni che lo incuriosiscono, ne preleva i tralci e li reinnesta nella sua piccola vigna.

il risultato?

Un laboratorio a cielo aperto!

Mario:Ho conosciuto un tempo nel quale i miei nonni e gli altri contadini strappavano alla terra i prodotti della sussistenza con cura e fatica. Ogni angolo di terra veniva coltivato a mano o con l’ ausilio delle vacche. Se oggi guardo quegli stessi terreni vedo solo incuria e abbandono”.

Da cultura dell’abbandono a coltura dell’abbandono

Valentina e Federica si propongono oggi di cogliere l’abbandono come una possibilità.

In una terra dimenticata si apre uno spazio per creare e per ricominciare a costruire, riqualificando l’ambiente nel rispetto della terra, dei suoi frutti e di chi la lavora.

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